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I mille volti della sicurezza

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Il racconto del nostro grande Emanuele Zara di qualche tempo fa, in cui raccontava come, per poco, non era rimasto intrappolato in una tana, ha risvegliato in me il desiderio di scrivere un pezzo sulla sicurezza in mare. Da vent’anni conosco e frequento quasi tutti i più grandi nomi del nostro sport e vi assicuro che sono relativamente pochi quelli che nella loro carriera non hanno avuto almeno un incidente.

La nuda e cruda realtà è che nella pratica del nostro sport, ogni anno, malauguratamente, ci sono incidenti mortali. In particolare le disgrazie si concentrano nei mesi estivi, quando il numero dei pescatori subacquei in attività è maggiore e le quote operative sono più profonde. Questi incidenti hanno cominciato ad accadere negli anni cinquanta e sessanta, quando la subacquea si è diffusa nel mondo, e tuttora non si trova un rimedio efficace che possa interrompere questa catena di lutti, che sembra non avere mai fine.

Dalla fine degli anni novanta la comunità dei pescatori in apnea ha avuto la possibilità, tramite le mailing list, i forum e – infine – i social network, di condividere, in tempo reale, le angosciose riflessioni sulle catene di eventi che determinano gli incidenti, dando luogo a discussioni molto dolorose, alle quali non di rado partecipano anche i parenti e gli amici più cari dello scomparso. E non è infrequente che il compagno di pesca racconti quasi in diretta i minimi dettagli di quanto accaduto. Nel corso di questi dibattiti l’emozione e il dispiacere sono sempre grandissimi in tutti (e anche chi non lo ammette, si capisce che sta soffrendo). E come spesso succede agli esseri umani quando qualcosa li coinvolge profondamente, capita che si accendano polemiche e contraddittori che, pur nella buona fede di tutti, finiscono talvolta per degenerare. Credo che ciò sia molto doloroso ma, in qualche modo, logico e naturale e, tutto sommato, anche utile. Infatti ciascuno di noi ha le proprie idee nel campo della sicurezza, ma la materia è tanto delicata che nessuno (nemmeno il campione del mondo) si può permettere di avere opinioni “ex cathedra” perché nessuno, è depositario della verità rivelata ed è bene che ogni apneista ascolti i pareri di tutti ma poi agisca di testa propria, perché ognuno di noi è il vero e solo responsabile delle scelte da cui dipende la propria vita.

Fatta questa necessaria premessa, non mi tiro indietro, una volta di più, nel dire cosa penso sul problema della nostra sicurezza in mare. Anch’io, come tutti voi, ho una famiglia e dei figli, e quindi mi faccio spesso scrupolo di chiedermi se sto facendo le cose giuste o se invece potrei fare di più e di meglio per la mia sicurezza. Avendo 55 anni di età, di cui almeno 35 trascorsi in mare, ho avuto tutto il tempo di farmi delle idee molto chiare al riguardo, ma, come dicevo, non sono affatto sicuro che siano tutte esatte e tutte le volte che vado in mare le rimetto inevitabilmente in discussione.

Le catene di eventi

Le “catene di eventi” che portano a un incidente sono quasi sempre molto lunghe e ricche di piccoli fatti casuali che, nel linguaggio comune, verrebbero probabilmente chiamati “fatalità”. In ciascuna di queste catene sarebbe sufficiente che uno di questi piccoli fatti casuali andasse in un’altra direzione per evitare l’incidente (viene da dire che, quasi sempre, basterebbe un pizzico di fortuna). Ma certamente la fortuna può essere aiutata dalla prudenza e, per converso, la sfortuna può essere molto favorita dai comportamenti avventati. La prudenza è tanto più efficace se si tratta di una prudenza basata sull’esperienza collettiva, e cioè sulla conoscenza e sull’analisi dei nessi causali delle “catene di eventi” che hanno portato a centinaia di tragici incidenti. Credo che, se esiste un modo giusto di rendere onore e di manifestare affetto verso i nostri compagni che non hanno avuto la fortuna di poter rientrare dal mare, questo sia sicuramente quello di fare tesoro degli insegnamenti che le loro tragiche esperienze hanno potuto insegnarci. Così almeno la loro perdita, se contribuirà a spiegarci come salvare la vita di un altro di noi, non sarà stata inutile.

Salute e igiene di vita

Questo è un argomento misconosciuto dai più ma da me considerato fondamentale. Infatti credo che condizioni fisiche non perfette o non adeguate alla performance richiesta, siano il primo piccolo anello della maggior parte delle “catene di eventi” di moltissimi incidenti. Tutti noi abbiamo una vita sociale, ed è quindi inevitabile che siamo invitati fuori a cena proprio la sera prima di andare a pesca. Magari capita che usciamo lo stesso in mare e non succede niente, anzi facciamo un’ottima performance. Con il tempo, poi, rischiamo di abituarci a questo tipo di situazione ed a stare sempre meno attenti. A mio avviso è pericoloso. Se vogliamo tutelarci dobbiamo attaccare la catena di eventi fin da primo anello in modo deciso e quindi su questo punto dobbiamo essere inflessibili.

Una forma fisica accettabile

Avere una forma decorosa prima di andare a pesca è fondamentale. Il pescatore subacqueo deve fare una vita basata su un’adeguata igiene fisica e alimentare. Non eccedere abitualmente nel bere e nel mangiare e praticare sport con costanza in modo da mantenere un accettabile stato di forma fisica Dopo un eventuale periodo d’inattività invernale bisogna prima riacquistare la forma e solo dopo averla riacquistata andare in mare.

L’abitudine al mare

La forma fisica deve essere parametrata a quello che andiamo a fare in mare. Se per tutto l’inverno ci siamo allenati intensamente in piscina possiamo sicuramente esordire con una pesca di ritmo in dieci metri d’acqua ma non possiamo andare a pescare in mare sotto i venti metri perché la profondità si allena solo con la profondità e anche l’apnea in mare richiede una sua specifica abitudine, quindi bisogna riconquistare le quote e la consuetudine con il mare poco alla volta.

Un perfetto stato di salute

Il pescatore prima di immergersi si deve sentire in perfetta salute e ogni sensazione di malessere (raffreddore, mal di gola, mal di testa) deve convincerlo a rinunciare all’immersione. Anche il fatto di aver dormito troppo poco la notte precedente (per qualsiasi motivo) è un valido motivo per rinunciare. Quante ore di sonno siano sufficienti è per ciascuno un fattore soggettivo; per me – a puro titolo di esempio – sei ore di sonno sono il minimo al di sotto del quale rinuncio, per altri potrebbero essere di più o di meno.

Ogni giornata è diversa

Non tutti giorni abbiamo il medesimo rendimento. Ci possono essere molte ragioni fisiologiche per le quali alcuni giorni abbiamo apnee migliori ed altri giorni peggiori. Un grande allenatore mi disse un giorno: “il tuo corpo è più furbo di te e sa cosa ti serve”. Quindi i giorni in cui abbiamo apnee peggiori dovremo rassegnarci di buon grado ad effettuare prestazioni inferiori. Se invece anche nelle giornate di cattiva forma non abbiamo abbastanza disciplina da controllare la nostra ambizione di scendere più profondi, allora sarà meglio che usciamo (subito!) dall’acqua.

In tana

La pesca in tana può essere molto pericolosa se non ben gestita. A parte il classico pericolo legato agli sforzi eccessivi per estrarre una cernia (sforzi che sono spesso fonte di brutte sincopi in risalita), si leggono spesso resoconti di percorsi da speleologi effettuati per raggiungere le “camere madri” nelle tane di cernie o di corvine. Il mio amico Massimo Profeti ha provato una volta ad invitarmi ad entrare con tutte le pinne in una tana di corvine. Io sono sceso sul segnale indicatomi, mentre lui mi osservava dalla superficie. Poi ho guardato dentro la tana, infine mi sono girato verso di lui, di cui scorgevo solo la silhouette contro la luce della superficie, e gli ho fatto un chiarificatore “gesto dell’ombrello”. In quel posto non ci sarei entrato dentro nemmeno per una corvina di quattro chili. A parte questa mia, forse troppo prudente, ma chiara, presa di posizione, c’è da dire che se da un lato sono capitate molte tragedie determinate da incastri di pescatori in tane profonde, purtuttavia ci sono molti campioni che sono capaci di gestire perfettamente anche i percorsi più tortuosi tra mura di roccia in tane profonde.

La padronanza e la paura

Ed eccoci all’argomento degli argomenti nel campo della sicurezza. Il primo fattore da prendere nella massima considerazione è la paura, senza la quale saremo sempre in pericolo. Se poi chiamarla paura vi sembra troppo, chiamatela timore, rispetto, senso di responsabilità o come altro vi pare. Io – che non mi vergogno – preferisco chiamarla paura, e vi assicuro che coltivo la mia capacità di avere paura tutte le volte che vado in mare come un elemento prezioso della mia sicurezza. Avete mai letto le statistiche degli incidenti stradali? Lo sapete che, molto raramente, capitano incidenti ai ragazzini i primi mesi di patente? I primi mesi sono morti di paura e sono prudentissimi. Mentre il momento più pericoloso avviene dopo, quando prendono sicurezza. Allora, improvvisamente, hanno come una reazione emotiva alla paura precedente. Si sentono capaci, forti, sicuri, invincibili ed è proprio in quel momento che fanno la cazzata fatale. A me stesso dico sempre: “Gherardo tu hai paura, lo so, e non c’è niente da vergognarsi. La paura è una cosa umana e molto utile anche”. Solo un’adeguata e giustificatissima dose di paura può indurre la vera prudenza. Sarebbe infatti umanamente impossibile scrivere tutte le regole della prudenza in tutte le diverse situazioni. Ci vorrebbero dieci volumi e tutta la vita per mandarle a memoria. Mentre, se ci soccorre la paura, ecco che la prudenza arriverà subito, caso per caso, a dirci cosa dobbiamo fare nel concreto. Ad esempio se quel dotto furbo ci sta affondando davanti verso quote proibitive a cosa penseremo? Se abbiamo paura penseremo, per prima cosa, alla colonna d’acqua che abbiamo sulla testa e staccheremo verso l’alto con un sorriso. Ma se non abbiamo paura cosa faremo?

E da ultimo c’è da parlare dell’altra caratteristica senza la quale anche la paura e la prudenza non saranno del tutto efficaci. Sto parlando della obiettività o, se volete, chiamatela pure onestà intellettuale. Tutti noi – bisogna ammetterlo – cerchiamo di giustificarci quando commettiamo degli errori. E’ una cosa umana. Lo facciamo di fronte agli altri e tante volte anche davanti a noi stessi nella solitudine. Ci scoccia ammettere di avere sbagliato. Cerchiamo di dimostrare che, poi in fondo, i nostri errori sono stati veniali e causati quasi sempre da azioni di altri o da pure fatalità. Ma davanti alla forza e alla saggezza del mare questi giochetti dovremmo smettere di farli e ammettere, una volta per tutte, i nostri errori e i nostri limiti. Solo accettando francamente i nostri limiti riusciremo a diventare più saggi ed a comportarci, la prossima volta, con maggiore prudenza e buonsenso. Lo so che è difficile farlo davanti agli altri (anche io ho i miei problemi) e spesso non ci si riesce. Ma perlomeno con se stessi e con il mare bisogna essere onesti, è una questione importante e, qualche volta, anche una questione di vita o di morte. Se abbiamo corso qualche pericolo perché siamo stati stupidi, avventati o superficiali, non bisogna minimizzare. Non bisogna scaricare sugli altri, sulla fatalità o sul destino una colpa che è nostra e soltanto nostra. Se abbiamo preso dei rischi e possiamo “raccontarla” dobbiamo ammettere che siamo stati degli stupidi e che non tutti hanno avuto la nostra fortuna. Dobbiamo dire a noi stessi: “sono stato uno stupido, ho sbagliato. Ma adesso ho imparato la lezione e non succederà più”.

Due parole sulle scuole…

Mi sono allenato per due anni con una scuola di Apnea Academy e posso testimoniare la bontà della didattica e la professionalità dell’istruttore (Roberto Tiveron mio carissimo amico, grande apneista e grande pescatore subacqueo). Posso garantire che l’insegnamento tiene sempre al primo posto la sicurezza e vengono esposti tutti gli accorgimenti fondamentali e impartite tutte le raccomandazioni per mettere il giovane che si avvicina al nostro sport nelle migliori condizioni per praticarlo in sicurezza, eliminando o riducendo al minimo tutti i pericoli. Però, come si suol dire, c’è un “però” ed io ritengo che sia un mio dovere morale prendermi le mie responsabilità e parlarvene, con tutta la serietà di cui sono capace. Una scuola di apnea è un “posto” dal quale un giovane molto forte e preparato atleticamente, può uscire, dopo pochi mesi, in condizioni di fare tuffi fino a trenta metri. E anche se l’istruttore è bravo, preparato e coscienzioso e non fa altro che parlare di sicurezza e gettare acqua sul fuoco del furore giovanile, questo è un dato di fatto ineliminabile che esiste e che determina conseguenze. Certo noi ai nostri tempi eravamo degli improvvisati e degli sprovveduti autodidatti e non era un buon sistema per approcciarsi ad uno sport duro e rischioso come il nostro. Ma, con tutta la nostra impreparazione e la nostra attrezzatura inadeguata, avevamo un sacco di paura e, anche per istinto di conservazione, ci avventuravamo verso il fondo, spesso tremando di freddo, piano piano, un metro dopo l’altro, un mese dopo l’altro e un anno dopo l’altro. Anche i nostri “miti” locali erano spesso ragazzini poco più grandi di noi che andavano solo leggermente più profondi e non certo forti profondisti di livello nazionale. Andare in una scuola di apnea oggi significa invece imparare una didattica scientifica in cui la sicurezza viene sempre messa al primo posto ma significa anche essere in una scuola che, proprio per la sua estrema efficienza, è in condizioni di prendere un giovane atleticamente preparato e mentalmente forte e portarlo, in pochi mesi, a fare il suo primo tuffo a profondità molto importanti (a trenta metri e anche più), il tutto a stretto contatto con forti apneisti di livello nazionale assoluto. E quando questo giovane, con tre mesi di esperienza di pesca e di mare, si accorge che con un minuto e mezzo di apnea (che per lui che è forte e giovane non è davvero molto) è in condizioni di scendere laddove pescano i suoi miti, può succedere qualche cosa di pericoloso nella sua testa. Può convincersi che quella è già la sua quota utile per pescare. Ma se è vero che ha la forza, che ha la tecnica e conosce tutte le regole di sicurezza (in teoria) è anche vero che non ha nessuna esperienza e questo, in un’attività come la nostra che dietro un gesto atletico apparentemente essenziale nasconde una enorme complessità, può essere molto pericoloso e talvolta fatale. Come ovviare a questo pericolo determinato dall’accelerazione delle fasi di apprendimento? Non lo so. Ma per me è un grande pericolo e, visto che nessuno ne parla, ho ritenuto che fosse mio dovere farlo per mettere in guardia i giovani e gli istruttori.

I motoscafi

Il traffico nautico selvaggio dei diportisti è un problema che – allo stato attuale – non può essere affrontato in nessuna maniera utile. Se non ci credete vi invito, durante la stagione estiva, a farvi il giro delle principali località marinare lungo le nostre migliaia di chilometri di costa. In ciascuna il traffico nautico vi si appaleserà come sostanzialmente indisciplinato e caotico. Se ancora non ci credete fate un esperimento semplice. Prendete tre o quattro palloni segnasub e calatevi in acqua in mezzo ai palloni in un punto di transito (ma badate bene dovete scegliere un punto che sia perfettamente legittimo e legale per pescare). Quello che succederà sarà che le imbarcazioni vi verranno incontro una dopo l’altra, continuando ad ignorare le numerose boe di segnalazione che vi circondano. E per un diportista che girerà alla larga dai palloni ce ne saranno sempre altri dieci che vi arriveranno addosso dritti per dritti. Nel traffico nautico estivo dei diportisti l’unica regola che vige è l’anarchia assoluta. E so di per certo che è capitato già che la motovedetta della Capitaneria di porto abbia invitato in maniera pressante qualche nostro collega pescatore (regolarmente segnalato) a smettere di pescare in un certo punto e a spostarsi, perché si trovava (considerata la stagione balneare) in un punto troppo pericoloso. Certo se i nostri tutori dell’ordine hanno fatto questo è stato solo con l’intenzione di fare del bene, ma, cionondimeno, un evento del genere costituisce la vittoria del caos e la resa finale della legalità in materia di nautica. Facendo una calzante similitudine, sarebbe come se i vigili urbani, invece di fermare e multare le automobili, invitassero dei pedoni a non attraversare sulle strisce pedonali su una certa strada nelle ore di punta perché è troppo trafficata. La morale è che noi pescatori non possiamo fare nessun affidamento sul fatto che i diportisti ci vedano o che si comportino correttamente. Dobbiamo tenere gli occhi aperti e contare solo su noi stessi, pronti ad aspettare l’ultimo istante con freddezza e a buttarci di lato per evitare di essere uccisi. Questa è la triste e amara verità. Venendo agli aspetti pratici, nella schivata dell’ultimo istante vi consiglio sempre di buttarvi di lato piuttosto che tentare di immergervi. Infatti un colpo di pinna di lato dato al momento giusto può allontanarci dalle eliche molto velocemente (con l’aiuto anche dell’onda di pressione dell’imbarcazione), mentre la sommozzata ha i suoi tempi incomprimibili e più lenti, senza contare che il pescaggio delle eliche arriva, in molte imbarcazioni, fino a parecchi metri di profondità.

La pesca in coppia

Quando si parla di sicurezza il discorso cade subito sulla pesca in coppia, considerata da molti la panacea di tutti i mali. In effetti potrebbe esserlo, non lo nego, ma ad alcune condizioni. La prima condizione è che il pescatore che “cura” il compagno (dando per scontato che sia esperto ed all’altezza della situazione) non si allontani e non perda il contatto visivo per nessun motivo (quindi solo pescare in due con un solo fucile è la cosa giusta per evitare distrazioni). La seconda condizione è che il fatto di avere il compagno sopra non induca il subacqueo che sta pescando a fare cose da pazzi (perché tanto c’è il compagno…). Purtroppo abbiamo avuto casi dolorosi di situazioni del genere in cui il subacqueo troppo sicuro ha subito la sincope in profondità e quindi la presenza del compagno è stata non solo inutile ma, addirittura, involontario fattore di rischio per eccesso di sicurezza indotta. Terza condizione, corollario della precedente, è che la presenza del compagno e la pesca in due con un fucile sia effettivamente un elemento aggiuntivo di sicurezza alla normale prudenza. Mi spiego meglio. Se da solo il pescatore avrebbe mantenuto certe quote ampiamente alla sua portata e sarebbe risalito con tempi di apnea ampiamente entro i propri limiti; ebbene, anche con il compagno senza fucile sopra, il medesimo pescatore si dovrebbe comportare esattamente nello stesso modo. Se, invece, la presenza del compagno induce il nostro pescatore a praticare abitualmente quote più fonde e apnee più lunghe di quando è da solo, allora è tutto inutile, perché quello che si guadagna in sicurezza aggiuntiva si perde in percentuale di rischio sulla performance. Non so se è chiaro il ragionamento. Detto questo, se si rispettassero rigidamente (e dico rigidamente) queste condizioni, allora si che la pesca in coppia sarebbe la soluzione finale del problema. Ma si rispettano queste regole e condizioni? Forse qualcuno lo fa, ma solo qualcuno.

In ogni caso nella pesca all’agguato e all’aspetto in pochissima acqua che pratico io la pesca in coppia in due con un fucile significherebbe, praticamente, rinunciare a pescare, in quanto si tratta di una tecnica in cui il movimento in superficie del pescatore è importante quasi come quello sul fondo e – in due con un fucile – si farebbe solo una grandissima confusione.

In conclusione, e fermo restando che una “perfetta pesca in coppia” darebbe la sicurezza quasi assoluta, credo di poter affermare che una “perfetta prudenza” sia decisamente più efficace di una pessima pesca in coppia, quale quella che viene più comunemente praticata

Prevedere l’imprevisto

Le catene causali che portano ad un incidente possono essere definite, se viste dal punto di vista soggettivo del pescatore, come “catene di imprevisti”. Nel senso che ogni singolo elemento della catena è costituito da un avvenimento considerato improbabile al punto che il nostro pescatore non ha predisposto una misura di sicurezza per neutralizzarlo. Di solito la somma di quattro o cinque imprevisti porta ad un incidente, e fa male pensare sarebbe bastato prevederne anche solo uno per spezzare la catena ed evitare il malaugurato evento. Questo ragionamento ci aiuta a capire come “l’incidente evitato” grazie alle misure precauzionali non sia un evento spettacolare, ma anzi sia una specie di “non evento”. Vi faccio un esempio. Se in un giorno di acqua particolarmente torbida io evito di andare su un certo relitto perché so che è tappezzato di reti abbandonate le quali potrebbero essere per me un pericolo (in quanto con la scarsa visibilità potrei scorgerle con troppo ritardo), io non faccio altro che comportarmi con prudenza preventiva e la mia giornata sarà tranquilla e non particolarmente avventurosa. Non saprò mai che, magari, grazie a questa mia capacità di “prevedere l’imprevisto”, io mi sono salvato la vita. Prevedere l’imprevisto non è una cosa spettacolare come un film d’azione con Rambo che schiva i pericoli saltando dagli elicotteri. Prevedere l’imprevisto significa solo che in quel giorno di torbido io sarò andato a pescare in un posto tranquillo in quattro metri d’acqua e non saprò mai che se fossi andato sul relitto pieno di spezzoni di reti forse ci avrei lasciato la pelle. Questo è prevedere l’imprevisto.

Gli accorgimenti per la sicurezza

Esistono un’infinità di accorgimenti per tutelare la propria sicurezza. Avere un’attrezzatura sicura significa avere una attrezzatura pensata in funzione della sicurezza. Lo stato del coltello, la posizione e la facilità di sgancio della zavorra e del pedagno, sono solo alcune delle possibili criticità da prendere in esame. La verità è che ogni componente della nostra attrezzatura deve essere ragionata in funzione del suo contributo alla sicurezza. Le pinne non si devono spezzare, la maschera non si deve allagare. Perfino il confort della muta può essere importante, perché se stiamo più comodi ed abbiamo meno freddo ci stancheremo meno facilmente e avremo più riserve e fisiologiche e psicologiche per affrontare le criticità. Infatti un altro accorgimento fondamentale è quello di distribuire bene le forze ed uscire dall’acqua non appena si è stanchi, senza tirare oltremisura. Infatti la trance agonistica della pesca subacquea è molto ingannevole. Capita di sentirsi ancora in perfetta forma quando invece siamo già stanchi. Sono le endorfine e l’adrenalina che ci ingannano, e allora come possiamo fare a capire che è arrivato il momento di smettere di pescare? Anche in questo caso ci soccorre l’esperienza. Sarà capitato anche a voi di uscire dall’acqua ancora pieni di energia e di sentirvi, paradossalmente, quasi più stanchi la mattina successiva dopo otto ore filate di sonno. Scommetto che il secondo giorno avrete avuto apnee più brevi! Io per esempio in un periodo in cui mi sono immerso sempre con il computer subacqueo, consultando sistematicamente il diario di immersione, mi sono accorto di un fatto sorprendente. Praticamente, circa mezz’ora prima di sentirmi stanco, cominciavo già ad avere apnee mediamente più brevi. Nel senso che io mi sentivo ancora in piena spinta ma la mia apnea invece già denunciava già che stava arrivando la stanchezza. Una differenza media di dieci secondi fisicamente non si avverte, ma il computer era li a testimoniare che il mio corpo sapeva che mi stavo stancando con mezz’ora di anticipo sulla mia mente. In certe circostanze non si può fare affidamento più di tanto sulle sensazioni ma bisogna affidarsi ai dati di fatto scientifici. Un buon metodo empirico è quello di rispettare sempre i propri tempi medi di pescata. Se in un certo periodo abbiamo una forma buona ma non eccezionale (diciamo da 3 o 4 ore di pescata), dobbiamo uscire dall’acqua una volta raggiunte le 4 ore anche se ancora non ci sentiamo stanchi. Solo un poco per giorno conquisteremo periodi di permanenza in acqua più lunghi. Per esempio è essenziale, quando siamo in caduta, specialmente con il torbido, buttare sempre un occhio al fondale per vedere se per caso stiamo atterrando su qualche pericolosissimo spezzone di rete abbandonata. Anche se stiamo cappottando, è bene chiedersi due volte se è opportuno entrare con tutto il corpo in quella tana sconosciuta in cui abbiamo visto entrare una cernia o una corvina. Magari è meglio fare un secondo tuffo per guardarla meglio dentro prima di entrarci, in modo da verificare bene che non ci siano insidie destinate ad ostacolarci nella successiva fase di svincolo dalla tana e stacco dal fondo.

La posizione del boccaglio

Un argomento che nella sua esiguità è stato (ed è tutt’ora) oggetto di molte controversie è quello della posizione del boccaglio nelle fasi di immersione. La vecchia generazione degli autodidatti nemmeno ci pensava a questo problema e si teneva il boccaglio in bocca semplicemente perché stava lì e nessuno pensava a toglierlo. Poi molti subacquei hanno cominciato a dare un’impronta personale e alcuni hanno iniziato a sfilare il boccaglio, soprattutto per poter entrare più facilmente e in sicurezza nelle tane anguste. Tenete conto che i vecchi boccagli non avevano tubi morbidi ed elastici come gli attuali e quindi erano veramente molto fastidiosi da gestire in tana se tenuti infilati sotto il cinghiolo della maschera. Successivamente siamo entrati nell’epoca delle scuole di apnea, le quali sono diventate quasi automaticamente qualcosa di simile a laboratori di ricerca in campo apneistico. E, in questo fermento culturale, si è affermato – nelle didattiche principali – il principio per cui il boccaglio debba essere tolto nel momento della capovolta. Le motivazioni sono molteplici. A parte la maggiore idrodinamicità, ci sarebbero anche motivazioni di sicurezza legate essenzialmente alla maggiore rapidità con cui, sollevando la testa fuori dell’acqua, si immette nei polmoni aria fresca ed ossigenata e anche al fatto che la liberazione del tubo dall’acqua richiede uno sforzo di espulsione effettuato mediante un rapido e potente soffio che – sempre secondo questo orientamento teorico – potrebbe determinare quel quid di sforzo in più che, alla fine di una apnea tirata, potrebbe essere tale da determinare la “samba” ovvero addirittura la sincope.

Diciamo che dal punto di vista della pesca si può riuscire a pescare sia mantenendo il boccaglio in bocca che togliendolo. Probabilmente per la pesca profonda in cui si fanno pochi tuffi ben preparati è forse più comodo toglierlo (sebbene il movimento per toglierlo dopo l’ultima inspirazione sia sempre un movimento in più che fatalmente brucia ossigeno), non fosse altro che per la maggiore idrodinamicità nelle lunghe cadute. Mentre per il pescatore di bassofondo che fa moltissimi tuffi senza soluzione di continuità è probabilmente meglio mantenere il boccaglio, in quanto potendo ricominciare ad ossigenarsi in superficie senza sollevare la testa dall’acqua, il pescatore è in condizioni di non perdere mai il contatto visivo con il fondo e quindi non perdere mai di vista la situazione su cui sta ragionando e lavorando. Comunque, come ripeto, si può pescare sia con il boccaglio che senza e, quindi, devono prevalere le motivazioni di sicurezza. Io a titolo personale, e dopo lunga riflessione, ho deciso di tenere il boccaglio ed ho sempre adottato questa metodica. La ragione che mi ha motivato (giusta o sbagliata che sia) è legata al grande numero di tragici incidenti in cui il pescatore perde la vita a galla, e annega circondato dall’aria fresca. Poiché data la struttura del corpo umano e considerata la forma delle mute e la distribuzione del peso, un pescatore che rimane privo di sensi a galla assume tendenzialmente quasi sempre una posizione con la faccia verso il basso e la schiena verso la superficie, ho sempre pensato che in tale circostanza se non avessi avuto il boccaglio sarei morto di sicuro, mentre se avessi avuto il boccaglio avrei avuto almeno una possibilità (visto che l’acqua contenuta nel tubo non è davvero molta e comunque non è detto che non sarei riuscito a svuotarlo prima di perdere i sensi). Pur conservando sempre questa mia convinzione e pescando costantemente con il boccaglio, devo confessare che per moltissimo tempo mi sono sentito davvero isolato in questa mia posizione e, mille volte, mi sono chiesto se non sarebbe stato il caso di cambiare le mie abitudini. E se non l’ho fatto non è certo per la presunzione di avere ragione (che è una malattia che non ho mai avuto), ma soltanto perché davvero non sono capace di fare una cosa che non mi convinca del tutto. Anche se il mondo intero si comporta in un certo modo, se io non sono convinto non riesco ad esimermi dal fare a modo mio, lo ammetto, è più forte di me.

Tuttavia l’anno scorso, uno dei più grandi apneisti del mondo, Gabriele Delbene, ha preso posizione a favore dell’ipotesi che io avevo sempre ritenuto giusta, e non ha fatto solo questo, ha anche aggiunto altre motivazione a quelle che io avevo sempre pensato esatte ed anzi è andato ancora oltre. Ha elaborato, cioè, una completa e molto convincente metodica di gestione dell’apnea, pubblicando al riguardo un articolo sul Pescasub e diffondendola nei molti corsi e stage che tiene in Italia e nel mondo. Non è detto che io e Gabriele abbiamo di sicuro ragione, ma certamente ormai il dibattito è riaperto.

Conclusioni

Lo so che sono un rompiballe e che vi propongo un mondo di regole standard molto rigide. Mi rendo conto che voi, giustamente, pensate che sono un vecchio rimbambito e rompiscatole che dice un sacco di cose antiquate, inutili e sbagliate. Ma su questo argomento non me la sento di scrivere cose “politicamente corrette”. Non me ne frega niente. Mi prendo le mie responsabilità e dico quello che penso, giusto o sbagliato che sia. E quello che penso è che se – anche solo per un anno – tutti i subacquei seguissero le regole rigide che vi ho scritto, probabilmente riusciremmo, se non proprio a spezzare, perlomeno a ridurre questa catena di tragedie che ci strazia il cuore.

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