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Itinerari

Nell’isola dei vulcani

In oceano a due passi da casa

Lanzarote, arcipelago delle Canarie, meno di 80 miglia dall’Africa (circa tre ore di volo dall’Italia), è caratterizzata da coste frastagliatissime di lava solidificata che sprofondano negli abissi oceanici. Un Atlantico sub-tropicale dove si può pescare a tutte le profondità a caccia di cernie, barracuda, carangidi, saraghi ed enormi serra   di Alberto Martignani

Nell’anno 1730 un’immane cataclisma eruttivo sconvolse l’isola di Lanzarote, la più settentrionale delle Canarie: dal vulcano Timanfaya, nella parte sud-occidentale, si aprirono ben 36 bocche eruttive che iniziarono a vomitare fiumi di lava, cenere e lapilli. Le colate divorarono in breve tempo campi coltivati e villaggi e la lava viscosa continuò a erompere dal sottosuolo per sei lunghi anni, riversandosi nelle acque fredde dell’Oceano Atlantico e ridisegnando completamente l’orografia  e la mappa della parte meridionale dell’isola.

Alla distanza, geologicamente insignificante, di 300 anni, Lanzarote appare ancora profondamente segnata da quel cataclisma, e centinaia di chilometri quadrati di territorio risultano coperti da impressionanti fiumare di lava solidificata, la cui superficie impervia e corrugata conferisce a queste lande un aspetto del tutto inospitale. Tuttavia, i Lanzarotegni hanno saputo, abilmente, trasformare queste caratteristiche in una risorsa, convertendole in un’attrattiva turistica di grande richiamo.

Nonostante questa vocazione turistica (o forse proprio per questo…) Lanzarote non appare per nulla “spearfisher-friendly” a chi decide di sceglierla per le proprie vacanze. Iniziamo con il dire che meno del venti per cento delle coste dell’isola sono aperte al nostro sport. Esiste un limite giornaliero di cueinq chili di pescato e il cacciatore subacqueo deve mantenersi sempre a non meno di 250 metri da barche e da persone, compresi gli eventuali cannisti presenti sulla riva. Per inciso, per questi ultimi non sono previste limitazioni di sorta: possono pescare ovunque (tranne che nella cosiddetta Reserva Marina Isla de La Graciosa e Islotes del Norte, preclusa a tutti) e, come ho potuto in più di un’occasione constatare, si sentono spesso investiti dell’autorità di inveire sgarbatamente contro il sub che, inavvertitamente, passi  sotto le loro postazioni, arroccate in posizioni poco visibili alla sommità delle alte scogliere che caratterizzano molti tratti di costa.

Un serra nella “rompiente”

A onta del fatto che saremo probabilmente trattati come “paria” sia  dalle severe Autorità dell’isola che dalle altre tipologie di pescatori, assieme all’amico Filippo  sono capitato a Lanzarote per una breve “spedizione” autunnale. Ci conforta il fatto di poter contare su un punto di riferimento prezioso sull’isola, un tal Nico Daniel Rodriguez, bravissimo pescatore affiliato al locale club di apnea e caccia subacquea.  La prima cosa che Nico ci spiega, appena messo piede a Lanzarote, è l’ubicazione dei tratti di costa praticabili. Ve ne sono due sul lato orientale, uno più settentrionale, che va da Punta Pasitos a Punta Ancones, e uno più meridionale, compreso tra Punta Tiñosa e Punta Papagayo. Tra questi due tratti di costa si trova una porzione di litorale, decisamentee turisticizzata, corrispondente agli insediamenti di Costa Teguise (dove abbiamo trovato alloggio, in un bel residence), della capitale Arrecife, di Playa Honda e di Puerto del Carmen.

Il terzo e ultimo tratto di costa aperto a noi subacquei si trova invece sul versante occidentale, quello più selvaggio: va da Punta del Curado a Punta la Gaviota. Ed è il migliore, ma anche quello meno accessibile, per la presenza di lunghissime e alte scogliere, che limitano fortemente la possibilità di entrare da terra, ma soprattutto per  l’esposizione alla furia dell’onda oceanica, che lo rende praticabile senza pericolo solo per pochi giorni al mese.

Il problema, ci spiega l’amico, non è rappresentato dai venti locali, e tanto meno dagli Alisei, che spirano da est e che comunque in questo periodo dell’anno risultano molto deboli, ma dalle ripercussioni delle lontane perturbazioni atlantiche che movimentano masse d’acqua immense. L’onda d’urto si amplifica attraversando l’oceano sino a investire con inusitata violenza le coste occidentali dell’isola. 

Per pura fortuna, l’indomani vi sarà una finestra favorevole, con un’altezza dell’onda inferiore al metro e mezzo, che da queste parti è considerato il limite di sicurezza per poter uscire in mare.                                                                                                                             L’appuntamento è a Playa Honda da dove, gommone al seguito, attraverseremo obliquamente l’isola sino a portarci nell’insenatura di Caleta de Caballo, sulla costa ovest, da cui è possibile calare in acqua  l’imbarcazione da un piccolo scivolo. Da qui, una buona ora di navigazione verso sud consente di raggiungere la zona scelta da Nico per i primi tuffi.

Ci troviamo proprio sotto la cosiddetta Montaña del Fuego, fulcro del Parco Nazionale di Timanfaya e zona d’origine dell’eruzione che ha segnato così indelebilmente la storia e la geografia di Lanzarote. Sono visibili dalla barca sia la miriade di bocche vulcaniche che costellano quest’area, bassi coni scuri dalla sommità tronca, sia l’oceanica distesa di lava solidificata che si getta in mare disegnando scogliere dai profili grotteschi.

Durante il tragitto, Nico ci fornisce ulteriori informazioni. Contrariamente alla gemella Fuerteventura, che costituisce l’altra isola “interna” (ossia più vicina al continente africano) delle Canarie, che presenta fondali lentamente digradanti, Lanzarote costituisce la sommità di un’enorme vulcano sottomarino, per cui a poche centinaia di metri dalla costa è già possibile trovare profondità sino a 400 metri. Dove ci fermeremo sarà possibile  tuttavia pescare anche in poco fondo, facendo attenzione a mantenerci a distanza di sicurezza dalla “rompiente”, ossia dalla linea ove, per l’abbassarsi improvviso del fondale, l’onda lunga tipica dell’Atlantico si alza repentinamente a formare cavalloni immani che frangono poi con violenza contro le scogliere. Allargandosi, sarà possibile invece incontrare una serie di gradoni che fanno aumentare progressivamente la profondità sino a 30 e più metri. Stabiliamo che io mi dirigerò verso terra, mentre Nico e Filippo si disporranno leggermente più al largo. A vigilare su tutti resterà Abel, il fidatissimo barcaiolo con cui Nico condivide ogni uscita. Ci buttiamo quasi all’unisono dal gommone,  pinneggiando verso le rispettive zone. Resto a galla per qualche istante a studiare la situazione: in prossimità della costa il fondale si alza a formare una cigliata che dai 7, 8 metri scende sino a una quindicina. Più a riva la profondità si riduce ulteriormente, ma questa fascia non è praticabile  per il frangere continuo dell’onda. La batimetrica dei 7, 8 metri appare, a prima vista, di gran lunga la più interessante, con saraghi, cefali e abbondante mangianza che si lasciano portare dalla risacca. Mentre rifletto sul da farsi, un nutrito branco di serra, tutti pesci sui tre chili, mi sciama sotto le pinne. Potrei azzardare un tiro dalla superficie, ma la sagoma dei predatori, visti dall’alto, appare troppo sfuggente. Tento allora una planata nel tentativo di portarmi al loro stesso livello, ma la scelta si rivela poco felice in quanto i pesci, spaventati dalla manovra, scodano via all’unisono. Piuttosto contrariato, sfogo la frustrazione su un sarago maggiore che “agguato“ con successo sfruttando la copertura offerta dall’alto gradino di roccia. E’ poi la volta di un grosso balestra che  sorprendo aggirarsi alla base della cigliata e che porto a tiro con un un cauto agguato in verticale.

Poco dopo, qualcos’altro che attira la mia attenzione. E’ uno spettacolo insolito: un branco fittissimo di aguglie che viaggia compatto in superficie. Si tratta di pesci identici a quelli mediterranei, ma dalle dimensioni spropositate, tanto da farli assomigliare, grazie alla stessa forma allungata, a barracuda di taglia. I pesci iniziano a sciamarmi attorno in un carosello da capogiro, disegnando traiettorie sempre più strette, sinchè uno non si avvicina troppo e riesco a colpirlo con un tiro piazzato, scoccato direttamente dalla superficie. La reazione è furiosa ma cerco di affrettare il recupero nel tentativo di non spaventare il resto del gruppo.   

Le grosse aguglie tropicali continuano a nuotare nei paraggi, ma la disavventura capitata alla compagna le ha messe sul chi vive. E non si avvicinano più di tanto. Tento allora di incuriosirle guadagnando il fondo, non più di 5, 6 metri, e nascondendomi dietro a una pietra. La manovra sembra avere successo e il flusso dei pesci sembra ora deviare lentamente (ma inesorabilmente) nella mia direzione. Mi sto mentalmente preparando a selezionare un bersaglio quando le aguglie, improvvisamente, si dileguano. Sulla loro scia compare repentina una grossa ombra grigiastra: un serra enorme che nuota veloce, lasciandomi appena il tempo di lanciargli dietro una fucilata disperata. L’asta lo coglie a fine corsa, con l’energia appena sufficiente ad aprirgli uno squarcio nel ventre e a uscire dalla parte opposta del corpo, con una sola delle due alette. Il pesce fugge disperato verso terra; lo seguo, tenendolo in trazione ma senza forzare, sinchè la sagola, incastrandosi tra le rocce, ne blocca la fuga. Inizia a sbattere violentemente e vedo l’asta fuoriuscire ormai quasi completamente dalla ferita dilaniata. Con uno scatto repentino lo raggiungo, riaffondo l’asta profondamente nel corpo della preda e con la mano sinistra lo afferro per le branchie. 

Quasi contemporaneamente un’enorme ondata mi raggiunge. Faccio appena in tempo ad abbassarmi sotto la superficie quel tanto che basta da attutirne l’urto. Intanto, cerco di togliermi il più rapidamente possibile da quella situazione. La sagola è incastrata tra le rocce, in mezzo alla schiuma, ma uno strappo secco mi consente di tranciarla liberando sia il fucile che l’asta. I cavalloni continuano ad arrivare in rapida successione e devo stare ben attento a sorvegliarli e a immergermi, ogni volta, sotto la loro base per poterli attraversare indenne.

Tuttavia, ogni volta la massa d’acqua in arrivo mi ricaccia indietro di diversi metri ed è solo con molta pazienza e fatica che riesco a uscire dallo stallo e a raggiungere il largo. Esausto sollevo in aria il fucile e il solerte Abel accorre a recuperarmi. Posso infine godermi la mia preda, un superbo esemplare di pez rey (serra), che farà registrare, alla bilancia, un peso di oltre otto chili.

Andiamo a recuperare gli amici. Filippo ha sorpreso, fermo sul fondo, un bell’esemplare di jurel (pseudocaranx dentex), che ha catturato in caduta con il suo roller da 90. Poco distante Nico notava, poco sotto la superficie, due grossi petos (wahoo) in caccia. Pesci di una ventina di chili che, però, non riusciva ad avvicinare. Poco dopo gli amici si imbattevano in un fiume di barracuda. Centinaia di esemplari che sciamavano tranquilli. Tre sarebbero caduti sotto i loro colpi. Come ciliegina, Nico catturava, in caduta a 24 metri, una cernia sui quattro chili.

Rifocillatici, ci trasferiamo in un’altra zona, ma non risulterà altrettanto ricca di pesce, e con acque decisamente più torbide. Nonostante ciò cattureremo ancora un paio di saraghi a testa e Nico due esemplari di pejeperro,  un curioso predatore di ricci dal colore rosso vivo, il muso allungato e le carni squisite.

Rientrando, Nico ci comunica che le previsioni meteomarine per i giorni successivi danno un incremento significativo dell’onda su questa costa e che molto probabilmente, per tutto il tempo in cui ci tratterremo a Lanzarote, non sarà possibile ritornarci. Un vero peccato…

Saraghi: grandi e in tana!                                                   

Il giorno successivo vogliamo esplorare da terra, assieme a Filippo, il tratto di litorale vicino al nostro residence di Costa Teguise, ossia quello subito a nord di Punta Ancones, che raggiungiamo in pochi minuti attraverso una stradina sterrata. L’immersione tuttavia risulta deludente: il fondale non sarebbe male, con le sue distese di roccia lavica corrugata a formare una serie di gradini e cigliate, ma il pesce latita. In particolare, sembrano completamente assenti i saraghi, a tutto favore dei grossi ricci tropicali (ricci diadema) che, in mancanza di questi loro tradizionali predatori, sono proliferati a dismisura e ricoprono grandi porzioni di fondale, creando non pochi problemi quando ci si trova all’aspetto e all’agguato.

Unico pesce presente in abbondanza, l’onnipresente pappagallo, che qui chiamano vieja e che, a onta dell’aspetto poco elegante, è la preda più apprezzata dal punto di vista culinario. Nonostante la sua goffaggine e apparente stupidità, in realtà non è facile da catturare: gli esemplari più grandi, in particolare, si tengono sempre a rispettosa distanza, mantenendo un perenne movimento fatto di scarti e cambi di direzione repentini, che rendono estremamente difficile metterli in mira. La pescata si conclude con le misere catture di una mormora e due cefali e con l’acquisita convinzione che, per combinare qualcosa, dovremo andarci a cercare qualche tratto di costa meno accessibile e sfruttato di questo.                                     

L’indomani mattina ci spostiamo più a nord, sfruttando la strada LZ-1 di grande comunicazione, che ci porta rapidamente sino alla cittadina di Arrieta. Qui l’abbandoniamo e imbocchiamo una stradina diretta verso l’oceano. Prima di arrivare al piccolo villaggio di Los Cocoteros, deviamo verso destra, lungo un sentiero sterrato che porta fino a un tratto di costa deserto. Sembra interessante.

E’ l’alba, la marea sta avvicinandosi al proprio apice e anche l’ondina che rompe la superficie sembra essere quella “giusta”. Già i primi tuffi sembrano presagire, grazie all’abbondante presenza di mormore, salpe e piccoli saraghi, che oggi le cose andranno meglio. Un agguato tra le rocce, nella schiuma, mi porta a tiro di un grosso sparide, la cui livrea appare segnata da grosse strie verticali scure. E’ un sargo breado (faraone), impegnato a brucare qualcosa tra le rocce. Non mi ha visto e la cattura risulta semplice.

Poco dopo, ad attirare la mia attenzione è un enorme branco di salpe. Sono centinaia di esemplari che mi avvolgono completamente. Improvvisamente, però, il branco si apre per lasciare il posto a un gruppetto di jurel in caccia. Mostrano il nuoto concitato e nervoso tipico di questa specie, ma riesco tuttavia e a inquadrare uno di questi piccoli carangidi  e a catturarlo.

All’aspetto successivo è una coppia di chopas (spondyliosoma cantharus), un curioso sparide tropicale, a venirmi incontro. Decido di sparare al più grosso dei due.  Proseguendo oltre, osservo come la morfologia del fondale cambi: le creste di lava solidificata e corrugata lasciano il posto a una specie di franata, sempre costituita da neri grumi di roccia vulcanica. Spacchi e tane si sprecano ed è così che, spinto dalla curiosità, inizio a esplorarne qualcuna. Sono piene di saraghi ! Per un po’ evito di sparare in quanto si tratta di esemplari non grossi e il fucile che sto utilizzando, un 99 in carbonio con doppio elastico circolare, non è sicuramente l’arma più adatta. Poi però non resisto. All’interno di un lungo budello, quattro o cinque saraghi, tra cui un enorme pizzuto, nuotano tranquilli. Premo il grilletto su quest’ultimo. Dopo un po’, a fare le spese di questa ricerca buco per buco, è un sarago maggiore, con il quale concludo la giornata. Rientro assieme a Filippo, che ha pescato al libero vedendo meno pesce del sottoscritto e catturando un solo, enorme cefalo.

Un’immensa colata di lava                                                                                             

Dedicheremo il giorno successivo a una visita di di Lanzarote. L’isola non è enorme, meno di 60 chilometri, in linea d’aria, da nord a sud, e con un’ottima viabilità, per cui, nell’arco di una sola giornata, sono numerose le attrazioni che è possibile vedere. Due, in particolare, sono imperdibili: la principale è rappresentata dal Parque Nacional de Timanfaya, 5.000 ettari di paesaggio lunare attorno al cratere del vulcano omonimo, un deserto di magma visitabile percorrendo una strada scavata nello strato, profondo decine di metri, di lava viscosa. Il vulcanismo, in zona, è ancora ben presente: già pochi metri sotto la superficie del terreno, la temperatura raggiunge gli 800 gradi e in diversi punti vi sono piccole bocche di sfiato da cui esce gas incandescente. Una località, insomma, dal fascino infernale e, a dire il vero, non completamente rassicurante.

Ben diverse le sensazioni che suscita la visita al cosiddetto Mirador del Rio, all’estremità settentrionale dell’isola: a 479 metri di altezza, una postazione sopraelevata di artiglieria, attiva in particolare durante la guerra ispano-americana del 1912, fu trasformata negli anni ’60 in punto d’osservazione panoramico dall’architetto lanzarotegno César Manrique. Due cupole con ampie vetrate in cristallo, dall’aspetto futuristico, consentono oggi di godere di una vista mozzafiato sulla sottostante isola di La Graciosa e sulle più lontane isole di Alegranza, Montaña Clara e Roque del Este, che formano un’estesa riserva naturale sia marina che terrestre. 

Concluso l’intermezzo “turistico”, siamo pronti a riprendere l’avventura di pesca. Restiamo nel nord-est dell’isola, in particolare a Punta Pasito, che rappresenta l’estremo limite settentrionale della zona aperta all’immersione e che raggiungiamo attraverso un lungo sentiero sterrato. Sarò io a dirigermi, a sinistra, verso la punta, mentre Filippo andrà a destra, in direzione di un’altra punta leggermente meno pronunciata. 

Il fondale è splendido (“sembra la Sardegna”, sarà il giudizio, entusiastico, di Filippo), molto articolato nel bassofondo dove massoni ciclopici e le solite increspature della roccia lavica creano una palestra ideale per l’agguato. Purtroppo, poco prima di raggiungere la base del piccolo promontorio, qualcosa sibila in acqua nelle vicinanze…

Alzo il capo e assisto, incredulo, all’inqualificabile comportamento di un cannista che mi sta prendendo di mira con una serie di grossi ciotoli, urlando improperi incomprensibili. Senza accorgermene sono evidentemente arrivato a poca distanza da dove aveva gettato il  piombo per la pesca a fondo. Sto schiumando di rabbia, ma non reagisco. Pertanto mi allargo, rinunciando definitivamente a esplorare il bassofondo, anche perché, guardando avanti, vedo altri cannisti che colonizzano, in pratica,  l’intera punta…                                                             

Più al largo, il fondale assume la caratteristica morfologia a gradoni che fa aumentare progressivamente la profondità. La batimetrica dei 15 metri appare particolarmente interessante, con lastroni, increspature e massi accatastati. Con una serie di planate esplorative individuo alcune cernie, che provo a insidiare in caduta, ma senza successo. Da annotare la presenza di grosse e nere pastinache, che stazionano sul fondo o volteggiano lente in prossimità del terreno. Nico mi aveva parlato della presenza di questi grossi predatori che rappresentano uno dei motivi per cui non è saggio tenere il pesce in cintura. Potrebbe infatti accadere che le pastinache ne siano attirate e che, specie nel corso di un aspetto, ci arrivino per impossessarsene.

Ma lo spettacolo più edificante è quello offertomi, poco dopo, da un immenso branco di dentici, con pesci fra i tre e i quattro chili, che arriva piano dal largo e mi sfila davanti. Sono fermo sui quattordici metri, ma purtroppo non sono sufficientemente nascosto (la presenza di un tappeto di ricci mi impedisce di schiacciarmi al terreno)  e i predatori mi passano semplicemente davanti per poi scomparire. Non li rivedrò più.   

Rientrando, arrivo a sfiorare l’area di bassofondo, stando a ragionevole distanza dai cannisti. E’ qui che porto a termine l’unica cattura. Nel corso di un aspetto, su un fondale di 4, 5 metri, un’ombra buca improvvisamente la sospensione e mi si avventa contro, con la caratteristica andatura a zig-zag di molte specie di carangidi. E’ un jurel di circa tre chili che centro con precisione e riduco alla ragione dopo un breve combattimento.

Risalendo faccio in modo, con una giustificata punta di perfidia, che i cannisti in lontananza possano vedere la grossa sagoma argentea che pende dalla boa. Filippo non ha invece avuto incontri sgradevoli e ha potuto realizzare diverse catture battendo esclusivamente il bassofondo all’aspetto e all’agguato: due lecce stelle, che da queste parti sono più grandi di quelle mediterranee, un sarago maggiore, un cefalone e una grossa vieja.

Squali e barracuda

Ultimo giorno di vacanza. Nico e Abel hanno organizzato una seconda pescata in gommone. Perdurando l’impossibilità di uscire dalla parte ovest dell’isola, visiteremo il tratto di litorale situato sulla costa orientale, a sud di Punta Tiñosa. L’appuntamento è ad Arrecife, nella parte più interna del porto, quella adiacente al barrio di S. Ginés, il vecchio quartiere dei pescatori, il cuore più genuino e tradizionale della capitale di Lanzarote. 

Il gommone viene messo a mare con la consueta rapidità ed efficienza e dopo neanche mezz’ora ci troviamo sulla verticale della zona prescelta, poco fuori un alto e scuro acantillado (falesia), a picco sull’oceano. Contrariamente a quanto riscontrato a ovest il primo giorno, la zona di bassofondo risulta povera di pesce. Invece, allargandosi le sorprese non tardano ad arrivare. Sui quindici metri assisto al volteggiare, rasente il fondo, di due grosse pastinache. Poco più lontano, un piccolo squalo si allontana zig-zagando. Non sono sicuro di averlo identificato con sicurezza, ma giurerei di aver intravvisto, ai lati del muso, le  due caratteristiche protuberanze. Sarà stato un martello?

Poi, finalmente, qualcosa di “sparabile”: sceso per esplorare una tana alla ricerca di qualche sarago, trovo lo spacco risulta disabitato ma, alle mie spalle, all’imboccatura di un’altra tana, una cernia di circa quattro chili mi osserva attonita. Mi giro piano e miro alla grossa testa; probabilmente, però, ho calcolato male la distanza in quanto il tiro viene evitato dal serranide che riesce a rifugiarsi indenne all’interno della fenditura. E’ poi la volta di un sarago faraone, portato a tiro grazie a un lungo ed estenuante aspetto, ma poi sbagliato a causa di uno scarto inaspettato del pesce una frazione di secondo prima che premessi il grilletto.

Errori a parte, la zona ci è apparsa abbastanza deludente, per cui risaliamo in gommone e ci spostiamo di qualche centinaio di metri. Nico ci guida sopra una cigliata avvertendoci che le profondità sono leggermente superiori, arrivando a sfiorare i 25 metri. L’acqua è limpidissima e, anche dalla superficie, si vede chiaramente una lunga linea di frattura del fondale, un’autentica faglia a livello della quale la profondità scende bruscamente dai 20, 25 metri a un gradino collocato parecchio più in basso.

Durante il tuffo mi rendo conto come il ciglio sia letteralmente tappezzato di mangianza. Una volta sul fondo, vengo avvolto da nuvole di castagnole, mentre branchetti misti di saraghi e mormore incrociano nervosamente davanti alla mia postazione. Il campo visivo viene improvvisamente invaso da un branco enorme di grossi barracuda, dal nuoto calmo e lentissimo, e non mi  è difficile inquadrarne uno e metterlo in sagola. Purtroppo, durante la risalita, la doppia aletta dell’asta si incastra nel terreno. Quasi contemporaneamente una parrucca nel mulinello, di cui non mi ero accorto, lo blocca. Provo a forzare leggermente la trazione, ma il terminale, forse consunto, cede improvvisamente. Il barracuda è perso ma Nico, che si era immerso nei pressi poco dopo di me, avendo assistito alla scena, riesce a recuperare l’asta nel corso dello stesso tuffo.

Effettuato un collegamento di fortuna, mi sposto di qualche decina di metri e ritento la sorte. L’azione si ripete quasi analoga alla precedente e anche in questa circostanza, dopo qualche secondo di attesa, un branco, più  piccolo, di barracuda giunge a tiro. Questa volta i pesci si mantengono a maggiore distanza per cui l’esemplare sul quale mi sono concentrato e ho scoccato il tiro, resta sull’asta.         E’ preso bene, tuttavia, e il recupero avviene questa volta senza alcuna complicazione.

Mi ricongiungo con gli amici che, nei pressi, hanno avvistato due grosse ricciole, che purtroppo non sono giunte a tiro, mentre Nico ha catturato una discreta cernia alla base della cigliata. Ci spostiamo ancora su un fondale più basso e interessante, dove però gli unici incontri di rilievo saranno quelli con le ennesime, numerose pastinache e con un grosso squalo angelo: un animale bellissimo e singolare assieme al quale riuscirò a nuotare per alcuni secondi.

Ultima, veloce tappa, davanti all’antemurale di Puerto del Carmen, località parzialmente inclusa nel tratto di litorale aperto alla pesca. Un’articolata franata di tetrapodi prosegue su un esteso pianoro  di roccia naturale che, caratteristica comune alla maggioranza dei fondali dell’isola, aumenta progressivamente di profondità a gradoni successivi. E’ proprio in corrispondenza dell’estremità della lunga diga che Filippo avrà il suo momento di gloria, riuscendo ad arpionare un grosso barracuda in caccia solitaria.

                        Forse non tutti sanno che…

* Il nome Lanzarote deriva dallo scopritore, il capitano ligure Lanzarotto Malocello, che nel 1312 venne inviato dalla Repubblica di Genova, con alcune caravelle, in missione esplorativa oltre le colonne d’Ercole, alla ricerca di nuove possibili vie commerciali verso le “Terre delle spezie”…

* Gli abitanti originari delle Canarie, i Guanches, erano alti e dagli occhi azzurri, tanto che se ne ipotizza un’origine scandinava. Furono rapidamente sterminati dalle malattie portate dai conquistatori europei, ma i loro geni e alcuni caratteri somatici si ravvisano tuttora in molti abitanti delle isole…

* Lanzarote, oggi molto brulla, era un tempo coperta da fitti palmeti, che furono però quasi tutti abbattuti, per rappresaglia, dai pirati moreschi alle cui scorrerie l’isola è rimasta esposta per secoli…

* Sull’isola di Lanzarote (e sulle altre dell’arcipelago) sono numerosi i dromedari, che furono importati dal vicino Marocco nei secoli scorsi per la loro resistenza alla fatica e alla siccità. Oggi costituiscono un’attrattiva quasi esclusivamente turistica…

* Nel 1983 le Canarie hanno ottenuto dal Governo spagnolo lo status di Comunità Autonoma, con agevolazioni fiscali e doganali non da poco. I carburanti, ad esempio, costano poco più che la metà di quanto non accada da noi…

Consigli di viaggio

Come arrivare

E’ stato utilizzato un volo Ryanair Bologna- Arrecife, la cui durata è all’incirca di tre ore e mezza. Contenendo, con qualche sacrificio, il peso del bagaglio nei limiti previsti, non ci è stato richiesto alcun supplemento per il trasporto dell’attrezzatura subacquea. In aeroporto abbiamo quindi noleggiato l’auto, orientandoci su un fuoristrada in quanto anche a Lanzarote, come nel resto delle Canarie, raggiungere le zone migliori può richiedere lunghi tragitti su strade sterrate e dal fondo irregolare.

Dove soggiornare

Abbiamo affittato un comodo e spazioso appartamento nel residence El Guarapo, di Costa Teguise (prenotato sul sito www.booking.com). A ottobre, prenotando con alcuni mesi di anticipo, il costo della settimana non supera i 320 euro, colazioni incluse. Gli appartamenti sono confortevoli, con una cucina funzionale e un frigorifero capace. Nei momenti di relax si può prendere il sole ai bordi della piscina interna e se non si ha voglia di cucinare, né di uscire, ci si può far preparare il pesce pescato nel piccolo ma efficiente ristorante del residence. I prezzi sono contenuti.

Dove mangiare

Alle Canarie, volendo, ci si può permettere di mangiare fuori anche tutte le sere, in quanto il rapporto qualità/prezzo dei ristoranti è molto favorevole rispetto all’Italia. Abbiamo privilegiato piatti a base di pesce e molluschi e ci siamo sempre trovati bene. I pasti si accompagnano invariabilmente alle tipichepatas arrugadas con mojo (patatine novelle cotte nel sale, da mangiare con la buccia e con salsine in cui intingerle). Abbiamo cenato spesso alla Isla Bonita, un locale un po’ fuori dal rutilante centro turisticizzato di Costa Teguise e  non lontano dal nostro residence. Ottime la zarzuela de pescado y mariscos, i calamari ripieni e i filetti di cernia. Un locale, invece, che si caratterizza rispetto agli altri, è El Diablo, all’interno del Parco di Timanfaya, dove le pietanze vengono cucinate direttamente sulle pietre rese incandescenti dal calore che diffonde il sottosuolo! 

Alberto Martignani

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