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Interviste

Storie di mare: Vincenzo Piccinno, uno di noi

Probabilmente sono in pochi al di fuori del Salento (dove vive) a conoscerlo. Però si tratta di un personaggio particolare, che merita di essere “raccontato”. Un ragazzo di 35 anni mosso da una passione non comune per la pesca, un ragazzo che in centinaia di immersioni ha studiato tutto del suo mare, dai venti alle correnti, ai posti, al comportamento delle prede in base ai periodi e ora realizza carnieri incredibili. In profondità spesso, ma non solo. Memorabili sono infatti le sue catture anche in poca acqua, come ci ha spiegato in questa lunga chiacchierata di Nicola Refolo

A dir la verità, a parte muta, maschera e pinne, da “Uno di noi” Vincenzo Piccinno ha ben poco. Lo conosco da qualche anno, ma non c’è mai stata una vera frequentazione. Ultimamente, però, ci incontriamo sempre più spesso alle cene conviviali di subacquei salentini organizzate più o meno mensilmente. In quelle serate siamo all’incirca una trentina di persone. Immaginate la bolgia infernale che si crea; tante parole che si intrecciano tanto che bisogna urlare per poter comunicare. M quel che è certo è l’argomento; basta guardare le mani di chi parla: con l’estensione dei palmi si descrive la misura del pesce catturato, se poi la distanza è spropositata comunemente si parla della preda sfuggita, quella dei sogni.

Quando Vincenzo racconta delle sue pescate, le mani non si aprono, non si enfatizza eccessivamente e non credo che lo faccia per mantenere un basso profilo. E’ fatto così, non cerca mai di mettersi in mostra dando suggerimenti, consigli e giudizi, è sempre pronto alla battuta e al sorriso.

Fin qui va tutto bene. Si deduce che Vincenzo è una personcina a modo e simpatica. Il problema nasce quando, aprendo la galleria del cellulare, fa vedere le sue catture: dotti, dentici enormi, cernie bianche e cernie brune, ricciole e corvine giurassiche. Praticamente le prede dei sogni di tutti noi. Automaticamente, date le caratteristiche degli esemplari catturati, il discorso scivola sulle profondità operative, e anche qui si parla di misure importanti. Pian piano comincio a scoprire Vincenzo e penso che sia una persona straordinaria sia dentro che fuori dall’acqua.

Per questo motivo, durante una di queste cene, gli chiedo se gli farebbe piacere scambiare quattro chiacchiere e imbastire un articolo per la rivista. Eccetta di buon grado e nel giro di qaulche giorno ho il materiale sufficiente per partire.

Iniziamo con scoprire chi è Vincenzo Piccinno. 39 anni, ha un fisico longilineo (è alto 1,65 è pesa attorno ai 65 chili); lavora per un’azienda impiantistica come elettricista manutentore d’impianti. E’ sposato da 15 anni con Maria e ha 2 figlie, la primogenita Francesca e la piccola Chiara.

«La mia passione più grande è la pesca – comincia a raccontarci -, ma curo anche altri interessi, come gli sport all’aria aperta (corsa, bici), che logicamente sfrutto come allenamento per l’apnea nel periodo invernale. In autunno, poi, mi piace tantissimo raccogliere funghi e quando ho tempo amo cucinare. Infine, adoro viaggiare.
«La passione per la pesca parte da lontano. I miei genitori avevano una residenza estiva a 100 metri dal mare e mio padre praticava si immergeva con regolarità. Armato di pneumatico e fiocina, bazzicava il fondale tana dopo tana. Allora di certo i pesci non mancavano e non servivano ne grandi doti apneistiche e nemmeno una tecnica sopraffina per fare carniere. A prescindere da questo, immergermi e vedere lo spettacolo di pesci e scenari subacquei era meraviglioso, ma soprattutto scatenava in me emozioni irrefrenabili. Da lì iniziò tutto. Già a 5 anni, mentre gli altri facevano il bagno, io stavo sempre con la testa sott’acqua in apnea e quando era possibile mi allontanavo dalla costa in compagnia di parenti o amici con maschera e pinne per esplorare i fondali. Passarono gli anni, ovviamente sempre in acqua e appena possibile con il fucile in mano e arrivarono i primi pesci, ma di certo non ero padrone delle tecniche. L’apnea migliorava e i metri aumentavano, però le catture scarseggiavano; più di 20 anni fa i mezzi dove attingere informazioni erano veramente pochi, ed erano pochi i pescatori che conoscevano veramente le odierne tecniche di caccia e talvolta nemmeno tutte. Poi un bel giorno un pescatore abituale delle mie zone disse: il pesce è finito e non se ne trova più; dentro di me pensai, questo è pazzo. Da quel momento mi fermai a riflettere e giunsi alla vera conclusione: le prede avevano capito il comportamento dei pescatori e aveva cambiato le proprie abitudini. Ormai si dovevano adottare tecniche differenti per poter fare carniere, allora iniziai uno studio meticoloso sulle tecniche e sulle condizioni metereologiche più favorevoli in ogni singola zona. Dopo tanti cappotti iniziai a capire il comportamento dei pesci, le soluzioni da adottare nelle diverse zone e con quali condizioni era meglio immergersi. Si aprì un mondo nuovo e un nuovo modo di intendere la pesca, che mi portò a realizzare tante catture e cospicui carnieri.

«E arriviamo ai giorni nostri – ci continua a spiegare Vincenzo -, un periodo in cui si tende ad andare profondi, talvolta oltre i dai 30 metri, con il piombo mobile, con il gommone ovviamente e distanti dalla costa. Durante queste giornate non applico una sola tecnica, lascio sempre aperte varie possibilità, soprattutto nei posti nuovi; mi capita nello stesso tuffo di alternare diverse soluzioni per arrivare a finalizzare la cattura. Le uscite in mare iniziano non molto presto la mattina e durano una giornata intera, fino al tramonto, e sono spesso focalizzate alla ricerca di cernie, dotti, dentici, sempre comunque cercando di catturare pesci importanti. Vivendo nel Salento posso scegliere di pescare sia sullo Ionio che in Adriatico; per quanto mi riguarda, preferisco lo Ionio e di solito mi immergo nelle zone di Gallipoli e di Torre San Giovanni. Quando arriva l’inverno o quando non si può uscire in gommone, mi organizzo per partire da terra. Accade in quelle giornate di mare formato e a tal proposito non posso fare a meno di ricordare una brutta avventura avvenuta proprio in poca acqua.

«Mi trovavo in vacanza in Sicilia con tutta la famiglia, ospiti da parenti; un giorno decidemmo di andare a San Vito lo Capo. Arrivati in spiaggia lascio sistemare loro e ritorno in macchina per prendere l’attrezzatura e prepararmi a entrare in acqua. Già durante la vestizione, guardando il mare, vedo dei pesci saltare; valuto se pescare sottocosta o spostarmi più a largo. Visto che soffia un maestrale in aumento decido di stare viciono a riva. Saluto tutti, entro in acqua e già dai primi tuffi mi rendo conto che le condizioni sono ottime. Infatti a terra vedo tanto pesce e le prime catture non tardano ad arrivare: saraghi, cefali, spigole finiscono nel cavetto; dopo circa due ore il portapesci che ho in vita è quasi pieno. Allora decido di controllare l’ultima insenatura e poi di rientrare, ma nel momento esatto in cui scapolo la punta e mi affaccio alla baia successiva, vedo un branco di saraghi fasciati; hanno un comportamento strano. Osservo velocemente il fondale e noto alcuni massoni al centro dell’insenatura; decido allora di tentare un lungo agguato intervallato da alcuni aspetti partendo da terra, per poi finalizzare il tuffo tra i massoni. Parto. Mi trovo a metà percorso quando a destra intravvedo una grossa sagoma scura zigzagare fra le rocce; non riesco a capire subito di cosa si tratta, ma intuisco il percorso che vuole fare e cerco di anticiparlo. Non sbaglio nulla e mi trovo dopo pochi secondi al posto giusto e al momento giusto: uno spigolone di oltre 10 chili mi passa davanti tranquillo e perfettamente a tiro. Sparo. E accade l’incredibile. L’animale si gira tranquillo, mi guarda e se ne va: rimango basito. Dopo capisco cosa è successo, il nylon dell’asta si è imparruccato in testata. Quel fucile lo avevo comprato da poco e quelle poche volte che lo avevo provato mi ero reso conto che non andava bene e che sbagliavo tanto pesce; non so perché quel giorno decisi di entrare in acqua proprio con quell’arma, la cosa più assurda è che fino a quel momento non avevo sbagliato un tiro. Si vede che quella spigola non doveva morire. Ritornai in spiaggia e appena uscito dall’acqua, nonostante avessi il carniere pieno di pesci, non riuscivo nemmeno a parlare, ero triste e arrabbiato con me stesso per aver usato quell’arbalete. Nella mia vita ho perso dei bei pesci, come tutti d’altronde, ma non riesco a capire perché questa disavventura non riesco ad accettarla. Comunque, appena arrivato a casa ho venduto subito quel fucile e sono diventato un perfezionista dell’attrezzatura, soprattutto degli arbalete in legno che ho iniziato a costruirmi da solo, ma questa è un’altra storia. Per fortuna, però, esistono anche le belle giornate, anzi bellissime, quando tutto gira per il verso giusto. Sfogliando i ricordi nella mia mente potrei raccontarvi infinite avventure, con spettacoli d’altri tempi o pescate davvero importanti, ma c’è un episodio, in particolare, che voglio raccontare. Era settembre, in quel periodo frequentavo Torre San Giovanni e, in alcuni punti che tenevo sotto controllo, sapevo che appena ci sarebbero state le giuste condizioni avrei visto molto pesce. Quasi sempre uscivo con il mio amico Giampiero, ma una settimana prima delle fatidica giornata organizzo una pescata con un altro amico e per caso, scorrendo il fondale, trovo un gradino. In poco tempo catturo un dotto, una corvina e dei saraghi; dal movimento di pesce su quel posto e dalle condizioni metereologiche in arrivo, intuisco che il momento giusto stava per arrivare. Contatto Giampiero e gli spiego la situazione. Dopo pochi giorni, liberi dagli impegni di lavoro, ci troviamo a casa sua di prima mattina con gommone e carrello al seguito. Non so perché, ma durante il percorso per arrivare al mare ho un senso di agitazione che non riesco a spiegare, forse è sesto senso. Entro in acqua. Vado immediatamente a visitare il gradino trovato per caso pochi gironi prima. Il posto è buono e infatti catturo subito due corvine; non voglio infierire oltre e ci spostiamo. Arriviamo nel secondo posto, su una zona che conosco benissimo e, cosa strana, niente pesci. Ci spostiamo ancora e mi immergo, ma il movimento che vedo di solito non c’è, intravvedo in un buco del grotto la coda di un sarago, sono a fine apnea e decido di risalire a prendere fiato. Mentre sono in superficie a ventilarmi penso a come impostare l’immersione successiva, ma una “vocina” mi consiglia di controllare subito il buco con il sarago. Discesa fluida e silenziosa e arrivo in prossimità della tana, mi affaccio lentamente e cosa mi trovo d’avanti? Il testone di una cernia bianca. Sparo istintivamente, il pesce è preso bene in testa, ma ha una reazione vigorosa. Filo il mulinello, arrivo in superficie, aggancio il fucile al moschettone del pallone e mi faccio passare il secondo fucile. Scendo con il 75 pronto per il colpo di grazia, effettuo il secondo tiro, estraggo il pesce dalla tana e dopo pochi secondi la cernia è nelle mani di Giampiero, che con un sorriso smagliante la mette nell’igloo.

«L’istinto da predatore mi aveva premiato e ancora non sapevamo cosa aveva in serbo quella giornata. Risalgo in gommone, cinque minuti di riposo per idratarmi e consultare il Gps, ci spostiamo di poco in un sito che non visitavo da tempo e la scelta si rivelò azzeccata. Uno scenario d’altri tempi, ancora prima di toccare il fondo vedo pesci da tutte le parti, un’infinità di dotti, saraghi e una cernia bianca. Mi concentro sulla cernia ed effettuo diverse immersioni senza sparare. E’ nervosa e non mi dà la possibilità di portarla a tiro. Dopo mezz’ora di tentativi, inizio a pensare agli altri pesci e cerco di studiare bene il posto. Quando finalmente capisco qual è la tana madre, dall’imboccatura intravvedo un dotto e, dopo una caduta silenziosa, riesco a portarlo a tiro. Sparo ma stranamente si sfila l’asta, l’aletta non si è aperta e il pesce si intana. Salgo, ricarico il fucile e scendo per controllare sperando di trovare il dotto sparato. Mi affaccio all’imboccatura e mi trovo davanti tre cunicoli e tre dotti in ogni buco. Osservo bene per cercare di capire qual è il pesce che ho perso; il cunicolo alla mia sinistra è quello più lontano, ma all’interno vedo la testa di un pesce che, per dimensioni, si avvicina molto a quello perso. Gli altri sono piccoli, miro in testa, sparo e lo fulmino. A quel punto, però, succede qualcosa di incredibile: l’asta sembra impazzita e non riesco a estrarre il dotto dalla tana, l’apnea è finita e devo risalire. Sono in superficie e cerco di capire cosa sta accadendo, nel frattempo, a scanso di equivoci, collego il fucile alla boa e metto tutto in trazione: faccio altre due immersioni per studiare la situazione. E mi rendo conto dell’accaduto. Dietro il pesce colpito si apre la tana principale, dove all’interno stazionava la cernia bianca che cercavo di catturare prima. Quando ho sparato al dotto ho fatto, senza saperlo, un’incredibile coppiola: dotto e cernia bianca. Fortuna? Di più. Risalgo in gommone sfinito e chiudo la giornata. Una bellissima pescata, ma non è solo quello che mi rende felice, è stato tutto l’insieme, scenari che rimarranno indelebili nella mente, avventure indimenticabili e di amicizia con Giampiero».

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